"I Ragazzi Ciechi"
(da "Cuore" di Edmondo De Amicis)
Il maestro è
molto malato e mandarono in vece sua quello della quarta, che è stato maestro
nell'Istituto dei ciechi; il più vecchio di tutti, così bianco che par che abbia
in capo una parrucca di cotone, e parla in un certo modo, come se cantasse una
canzone malinconica; ma bene, e sa molto. Appena entrato nella scuola, vedendo
un ragazzo con un occhio bendato, s'avvicinò al banco e gli domandò che
cos'aveva. - Bada agli occhi, ragazzo, - gli disse. - E allora Derossi gli
domandò: - È vero, signor maestro, che è stato maestro dei ciechi? - Sì, per
vari anni, - rispose. E Derossi disse a mezza voce: - Ci dica qualche cosa.
Il maestro s'andò a sedere a tavolino.
Coretti disse forte: - L'istituto dei ciechi è in via Nizza.
- Voi dite ciechi, ciechi, - disse il maestro, - così, come direste malati e
poveri o che so io. Ma capite bene il significato di quella parola? Pensateci un
poco. Ciechi! Non veder nulla, mai! Non distinguere il giorno dalla notte, non
veder né il cielo né il sole né i propri parenti, nulla di tutto quello che s'ha
intorno e che si tocca; essere immersi in una oscurità perpetua, e come sepolti
nelle viscere della terra! Provate un poco a chiudere gli occhi e a pensare di
dover rimanere per sempre così: subito vi prende un affanno, un terrore, vi pare
che vi sarebbe impossibile di resistere, che vi mettereste a gridare, che
impazzireste o morireste. Eppure... poveri ragazzi, quando s'entra per la prima
volta nell'Istituto dei ciechi, durante la ricreazione, a sentirli suonar
violini e flauti da tutte le parti, e parlar forte e ridere, salendo e scendendo
le scale a passi lesti, e girando liberamente per i corridoi e pei dormitori,
non si direbbe mai che son quegli sventurati che sono. Bisogna osservarli bene.
C'è dei giovani di sedici o diciott'anni, robusti e allegri, che portano la
cecità con una certa disinvoltura, con una certa baldanza quasi; ma si capisce
dall'espressione risentita e fiera dei visi, che debbono aver sofferto
tremendamente prima di rassegnarsi a quella sventura. Ce n'è altri, dei visi
pallidi e dolci, in cui si vede una grande rassegnazione; ma triste, e si
capisce che qualche volta, in segreto, debbono piangere ancora. Ah! figliuoli
miei. Pensate che alcuni di essi hanno perduto la vista in pochi giorni, che
altri l'han perduta dopo anni di martirio, e molte operazioni chirurgiche
terribili, e che molti son nati così, nati in una notte che non ebbe mai alba
per loro, entrati nel mondo come in una tomba immensa, e che non sanno come sia
fatto il volto umano! Immaginate quanto debbono aver sofferto e quanto debbono
soffrire quando pensano così, confusamente, alla differenza tremenda che passa
fra loro e quelli che ci vedono, e domandano a sé medesimi: - Perché questa
differenza se non abbiamo alcuna colpa? - Io che son stato vari anni fra loro,
quando mi ricordo quella classe, tutti quegli occhi suggellati per sempre, tutte
quelle pupille senza sguardo e senza vita, e poi guardo voi altri... mi pare
impossibile che non siate tutti felici. Pensate: ci sono circa ventisei mila
ciechi in Italia! Ventisei mila persone che non vedono luce, capite; un esercito
che c'impiegherebbe quattro ore a sfilare sotto le nostre finestre!
Il maestro tacque; non si sentiva un alito nella scuola. Derossi domandò se era
vero che i ciechi hanno il tatto più fino di noi.
Il maestro disse: - È vero. Tutti gli altri sensi si raffinano in loro, appunto
perché, dovendo supplire fra tutti a quello della vista, sono più e meglio
esercitati di quello che non siano da chi ci vede. La mattina, nei dormitori,
l'uno domanda all'altro: - C'è il sole? - e chi è più lesto a vestirsi scappa
subito nel cortile ad agitar le mani per aria, per sentire se c'è il tepore del
sole, e corre a dar la buona notizia: - C'è il sole! - Dalla voce d'una persona
si fanno un'idea della statura; noi giudichiamo l'animo d'un uomo dall'occhio,
essi dalla voce; ricordano le intonazioni e gli accenti per anni. S'accorgono se
in una stanza c'è più d'una persona, anche se una sola parla, e le altre restano
immobili. Al tatto s'accorgono se un cucchiaio è poco o molto pulito. Le bimbe
distinguono la lana tinta da quella di color naturale. Passando a due a due per
le strade, riconoscono quasi tutte le botteghe all'odore, anche quelle in cui
noi non sentiamo odori. Tirano la trottola, e a sentire il ronzìo che fa
girando, vanno diritti a pigliarla senza sbagliare. Fanno correre il cerchio,
giocano ai birilli, saltano con la funicella, fabbricano casette coi sassi,
colgono le viole come se le vedessero, fanno stuoie e canestrini intrecciando
paglia di vari colori, speditamente e bene; tanto hanno il tatto esercitato! Il
tatto è la loro vista, è uno dei più grandi piaceri per loro quello di toccare,
di stringere, d'indovinare la forma delle cose tastandole. È commovente vederli,
quando li conducono al museo industriale, dove li lascian toccare quello che
vogliono, veder con che festa si gettano sui corpi geometrici, sui modellini di
case, sugli strumenti, con che gioia palpano, stropicciano, rivoltano fra le
mani tutte le cose, per vedere come son fatte. Essi dicono vedere!
Garoffi interruppe il maestro per domandargli se era vero che i ragazzi ciechi
imparano a far di conto meglio degli altri.
Il maestro rispose: - È vero. Imparano a far di conto e a leggere. Hanno dei
libri fatti apposta, coi caratteri rilevati; ci passano le dita sopra,
riconoscon le lettere, e dicon le parole; leggono corrente. E bisogna vedere,
poveretti, come arrossiscono quando commettono uno sbaglio. E scrivono pure,
senza inchiostro. Scrivono sur una carta spessa e dura con un punteruolo di
metallo che fa tanti punticini incavati e aggrappati secondo un alfabeto
speciale; i quali punticini riescono in rilievo sul rovescio della carta per
modo che voltando il foglio e strisciando le dita su quei rilievi, essi possono
leggere quello che hanno scritto, ed anche la scrittura d'altri, e così fanno
delle composizioni, e si scrivono delle lettere fra loro. Nella stessa maniera
scrivono i numeri e fanno i calcoli. E calcolano a mente con una facilità
incredibile, non essendo divagati dalla vista delle cose, come siamo noi. E se
vedeste come sono appassionati per sentir leggere, come stanno attenti, come
ricordano tutto, come discutono fra loro, anche i piccoli, di cose di storia e
di lingua, seduti quattro o cinque sulla stessa panca, senza voltarsi l'un verso
l'altro, e conversando il primo col terzo, il secondo col quarto, ad alta voce e
tutti insieme, senza perdere una sola parola, da tanto che han l'orecchio acuto
e pronto! E danno più importanza di voi altri agli esami, ve lo assicuro, e
s'affezionano di più ai loro maestri. Riconoscono il maestro al passo e
all'odore; s'accorgono se è di buono o cattivo umore, se sta bene o male,
nient'altro che dal suono d'una sua parola; vogliono che il maestro li tocchi,
quando gli incoraggia e li loda, e gli palpan le mani e le braccia per
esprimergli la loro gratitudine. E si voglion bene anche fra loro, sono buoni
compagni. Nel tempo della ricreazione sono quasi sempre insieme quei soliti.
Nella sezione delle ragazze, per esempio, formano tanti gruppi, secondo lo
strumento che suonano, le violiniste, le pianiste, le suonatrici di flauto, e
non si scompagnano mai. Quando hanno posto affetto a uno, è difficile che se ne
stacchino. Trovano un gran conforto nell'amicizia. Si giudicano rettamente, fra
loro. Hanno un concetto chiaro e profondo del bene e del male. Nessuno s'esalta
come loro al racconto d'un'azione generosa o d'un fatto grande.
Votini domandò se suonano bene.
- Amano la musica ardentemente, - rispose il maestro. - È la loro gioia, è la
loro vita la musica. Dei ciechi bambini, appena entrati nell'Istituto, son
capaci di star tre ore immobili in piedi a sentir sonare. Imparano facilmente,
suonano con passione. Quando il maestro dice a uno che non ha disposizione alla
musica, quegli ne prova un grande dolore, ma si mette a studiare disperatamente.
Ah! se udiste la musica là dentro se li vedeste quando suonano colla fronte alta
col sorriso sulle labbra, accesi nel viso, tremanti dalla commozione, estatici
quasi ad ascoltar quell'armonia che rispandono nell'oscurità infinita che li
circonda, come sentireste che è una consolazione divina la musica! E giubilano,
brillano di felicità quando un maestro dice loro: - Tu diventerai un artista. -
Per essi il primo nella musica, quello che riesce meglio di tutti al pianoforte
o al violino, è come un re; lo amano, lo venerano. Se nasce un litigio fra due
di loro, vanno da lui; se due amici si guastano, è lui che li riconcilia. I più
piccini, a cui egli insegna a sonare, lo tengono come un padre. Prima d'andare a
dormire, vanno tutti a dargli la buona notte. E parlano continuamente di musica.
Sono già a letto, la sera tardi, quasi tutti stanchi dallo studio e dal lavoro,
e mezzo insonniti; e ancora discorrono a bassa voce di opere, di maestri, di
strumenti, d'orchestre. Ed è un castigo così grande per essi l'esser privati
della lettura o della lezione di musica, ne soffrono tanto dolore, che non s'ha
quasi mai il coraggio di castigarli in quel modo. Quello che la luce è per i
nostri occhi, la musica è per il loro cuore.
Derossi domandò se non si poteva andarli a vedere.
- Si può, - rispose il maestro; - ma voi, ragazzi, non ci dovete andare per ora.
Ci andrete più tardi, quando sarete in grado di capire tutta la grandezza di
quella sventura, e di sentire tutta la pietà che essa merita. È uno spettacolo
triste, figliuoli. Voi vedete là qualche volta dei ragazzi seduti di contro a
una finestra spalancata, a godere l'aria fresca, col viso immobile, che par che
guardino la grande pianura verde e le belle montagne azzurre che vedete voi...;
e a pensare che non vedon nulla, che non vedranno mai nulla di tutta quella
immensa bellezza, vi si stringe l'anima come se fossero diventati ciechi in quel
punto. E ancora i ciechi nati, che non avendo mai visto il mondo, non
rimpiangono nulla, perché hanno l'immagine d'alcuna cosa, fanno meno
compassione. Ma c'è dei ragazzi ciechi da pochi mesi, che si ricordano ancora di
tutto, che comprendono bene tutto quello che han perduto, e questi hanno di più
il dolore di sentirsi oscurare nella mente, un poco ogni giorno, le immagini più
care, di sentirsi come morire nella memoria le persone più amate. Uno di questi
ragazzi mi diceva un giorno con una tristezza inesprimibile: - Vorrei ancora
aver la vista d'una volta, appena un momento, per rivedere il viso della mamma,
che non lo ricordo più - E quando la mamma va a trovarli, le mettono le mani sul
viso, la toccano bene dalla fronte al mento e alle orecchie, per sentir com'è
fatta, e quasi non si persuadono di non poterla vedere, e la chiamano per nome
molte volte come per pregarla che si lasci, che si faccia vedere una volta.
Quanti escono di là piangendo, anche uomini di cuor duro! E quando s'esce, ci
pare un'eccezione la nostra, un privilegio quasi non meritato di veder la gente,
le case, il cielo. Oh! non c'è nessuno di voi, ne son certo, che uscendo di là
non sarebbe disposto a privarsi d'un po' della propria vista per darne un
barlume almeno a tutti quei poveri fanciulli, per i quali il sole non ha luce e
la madre non ha viso!
Edmondo
De Amicis